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Fotografi veneziani | Percorsi d'autore
Fotografi veneziani - Percorsi tematici -

Fotografi veneziani, percorsi d'autore - l'École de Venise

I percorsi tematici sono rassegne virtuali che mostrano le fotografie più significative per specifici argomenti: luoghi, avvenimenti, volti, ecc.

Nei prossimi mesi continuerà la catalogazione di tutte le foto già acquisite e di quelle che confluiranno via via anche di altri fotografi veneziani.

Visitate periodicamente il sito per vedere l'avanzamento delle attività.

Percorsi tematici consultabili


Visita il percorso Luigi Ferrigno - Lavoratori di vetro

Luigi Ferrigno: un obiettivo sui lavoratori

Ragazzini che addentano panini, uomini che soffiano dentro canne come se suonassero uno strumento musicale, altri che manipolano un globo luminoso con un gesto simile ad un inchino: se la lavorazione del vetro continua a destare meraviglia, ancor di più queste immagini inusuali e inedite, scattate da Luigi Ferrigno in due vetrerie muranesi negli anni tra il 1957 e il 1960. L'osservatore è colpito da visioni fuori dal tempo - una barca nella nebbia dell'alba che traghetta gli operai verso la fornace, il vagone ferroviario davanti la fondamenta, il battello che arriva dall'Istria carico di legna -, ma l'interesse di queste immagini è soprattutto nello "sguardo interno" e partecipe con il quale l'autore, egli stesso impiegato nell'azienda, ritrae lavoratori e lavoratrici del vetro nel luogo e tempo di lavoro, aggirandosi in mezzo a loro con la piccola Leica acquistata da Gianni Berengo Gardin.

Ferrigno cominciò ad appassionarsi alla fotografia e a frequentare il Circolo fotografico "La gondola" alla fine degli anni '50. Più che alla ricerca dell'immagine perfetta da esporre in qualche mostra, era interessato però al fotoreportage sociale, alla sequenza narrativa delle immagini per raccontare aspetti della vita vera della città. Per questo, assieme ad altri amici i cui nomi - Giuseppe "Bepi" Bruno, Berengo Gardin, Carlo Mantovani, Gigi Bacci, Paolo Magnifici - rimarranno legati alla storia della fotografia non solo veneziana -, fondò nel '62 il Guppo fotografico "Il ponte" e cominciò a ritrarre soggetti e ambienti di lavoro.

La mostra espone fotografie datate 1957, prese in una vetreria artistica di piccole dimensioni, accanto a quelle del 1960 scattate in una fabbrica di dimensioni più grandi, dove oltre alle lavorazioni artistiche tradizionali, come il vetro soffiato o lavorato a piastra, vi sono quelle industriali per la produzione di lampadari, articolate in diversi reparti.

Quando il proprietario della vetreria gli chiese delle foto pubblicitarie per far conoscere la fabbrica ai compratori, contemporaneamente Ferrigno realizzò queste foto, tutt'altro che pubblicitarie, rispondendo al suo personale interesse per il fotoreportage: una fotografia "artigianale" non priva di competenza tecnico-visiva.

Abbiamo così immagini che documentano ambienti ("antri fumosi e scuri con in mezzo allo stanzone il forno riparato da coprifuochi") e condizioni dei lavoratori nella fase intermedia tra la ristrutturazione degli anni '50 e la crisi dei '70, segnate da cicli di lotte, un tassello mancante che arricchisce la storia visiva dei vetrai muranesi.

La messa a fuoco infatti non è - come ci ha abituati l'archeologia industriale - su edifici e macchine, ma sui lavoratori: l'obiettivo li segue durante la lunga giornata, dal mattino presto (si iniziava alle 7,15) quando ancora assonnati viaggiano in vaporetto, ai momenti di lavoro e di pausa per consumare il pranzo. Ferrigno, che aveva iniziato ad andare in fabbrica molto giovane, è colpito in particolare dai ragazzini, "garzonetti" addetti a preparare gli strumenti per il maestro, e li coglie in diversi momenti del loro vissuto quotidiano: mentre lavorano, ma anche mentre mangiano e sonnecchiano (e chissà cosa sognano) durante la pausa, sdraiati su precari panchetti.

Nelle vetrerie artistiche tradizionali la squadra di lavoro è formata da persone di diversa età ed esperienza: maestro, serventi, garzoni e serventini, ai quali si aggiungono i forcellanti, addetti alla ricottura e tempera dei vetri, il composizioniere e il fonditore delle miscele. Non c'è una scuola apposita per apprendere l'arte, quindi si va al lavoro molto piccoli e si impara osservando e aiutando, a stretto contatto col maestro. Il Contratto collettivo nazionale per le industrie del vetro del '46 prevede il compimento del 14 anno per essere assunti come apprendisti, ma le fotografie documentano come, ancora nel '60, vi siano ragazzini di età inferiore, poco più che bambini.

Ci sono i gesti, i corpi e i volti delle operaie, ragazze giovani e qualcuna anche meno giovane, addette alle macchine delle rifiniture finali, a ricordare il lavoro delle donne, meno qualificato e meno pagato, sempre più presente nelle vetrerie in corrispondenza con l'introduzione delle macchine nel primo '900. Le vediamo levigare i bordi degli oggetti alla spianatrice o alla fascettatrice a mani nude, incuranti di avvelenamenti e ferite. Ci sono i gesti sapienti dei maestri vetrai che creano oggetti di vetro usando abilmente gli attrezzi. Condizioni e organizzazione del lavoro antiche convivono in queste immagini con indizi di modernità, come le pettinature alla moda delle giovani operaie che sfoggiano audaci cotonature, i ciuffi e le magliette a righe del ragazzi. Hanno il sapore dell'istantanea più che dell'inquadratura studiata, dove prevale l'esigenza narrativa alla ricerca dell'immagine sintetica. Ogni volto, ogni corpo, sono racconti in sé, del singolo lavoratore/trice, rinunciando a pretese di generalizzazioni e universalità, rifuggendo così anche all'estetizzazione del lavoro - di cui abbiamo eccellenti esempi nelle fotografie di Porto Marghera -, i cui elementi ricorrenti possono essere rintracciati nell'esasperazione del contrasto chiaroscurale, nel gigantismo delle macchine, nel rapporto prometeico uomo-macchina, nella evidenziata divisione dei ruoli. C'è invece la confusione operosa, il disordine produttivo di fabbriche semi-artigianali dove accanto a moderne macchine sopravvivono antiche lavorazioni, tratti resi in immagine attraverso scatti veloci, incuranti di tagliare mani, piedi e teste, di sfuocare in controluce, di slabbrare i corpi in sagome informi nel mosso, anziché fissarli col lampo della luce artificiale.

Si tratta di una prospettiva "altra", una memoria fotografica dei soggetti nella loro individualità, non uniformati nel gesto che asseconda la macchina, nel ritmo della catena di montaggio. Di fronte al loro compagno dotato di macchina fotografica questi lavoratori e lavoratrici si offrono con accondiscendenza e un certo divertimento, senza irrigidirsi in pose confacenti al ruolo e alla gerarchie di fabbrica. Ne risultano immagini lontane da quelle delle foto d'industria, in genere commissionate dai proprietari per fini propagandistici ed edificanti, che vogliono trasmettere un'idea di ordine e rigore e perciò sono ripulite da elementi disturbanti come gesti imprevisti, sorrisi, pose scomposte, torsi nudi. Racconta Ferrigno che per attenuare il caldo e la fatica in vetreria si cantava, si beveva acqua e menta (in ciotole ricavate da scarti di soffiati) e quando qualcuno si sentiva male lo mettevano su una carriola e lo portavano fuori: da cui l'espressione "el xe 'nda in cariola". La testimonianza orale è importante per conoscere ciò che le immagini non dicono: l'odore, il calore, la fatica, la pesantezza dello straordinario ben oltre le 8 ore, l'aria bollente che brucia i polmoni. Le foto parlano dei luoghi, degli oggetti, dei gesti, dei corpi e delle loro relazioni, ci dicono come i soggetti si dispongono alla loro rappresentazione e memoria visiva.

Queste foto, riemerse quasi per caso dal cassetto nel quale sono state tenute per più di 40 anni, sono dunque un documento prezioso, non solo per una storia delle vetrerie muranesi, ma anche per la memoria sociale della Venezia novecentesca, il cui volto industriale e operaio viene spesso oscurata, che la fotografia si dimostra anche in questo caso essere strumento e linguaggio coerente per rappresentare. Esse testimoniano anche la volontà di sperimentazione e la vitalità culturale di fotografi che usano il mezzo non per vendere una Venezia da cartolina, ma per indagare i vari aspetti della sua contraddittoria realtà.

Venezia, maggio 2009

Maria Teresa Sega



Visita il percorso Carlo Mantovani - Stucky 1954 - L'ultima difesa del Castello

Come sorse un castello gotico sulla laguna

La Venezia di fine Ottocento è nel pieno di una profonda mutazione urbanistica e strutturale: una città che sta spostando lo sguardo da oriente ad occidente, sempre meno affacciata sul mare e sempre più rivolta a terra. La costruzione del ponte translagunare (1841-46) ha portato la ferrovia a Cannaregio, innescando una serie di effetti a catena: tra tutti il trasferimento delle attività portuali dalla tradizionale sede in Bacino San Marco all'imboccatura occidentale del Canale della Giudecca, dove i nuovi moli possono essere raggiunti dai binari. La Stazione Marittima di S. Marta viene inaugurata nel 1880, dopo oltre un decennio di lavori.

In quegli stessi anni la città compie un notevole sforzo di riconversione industriale: l'idea di Marghera è ancora di là da venire e i nuovi stabilimenti sorgono ancora nella Venezia insulare, negli ultimi spazi rimasti liberi ai margini della città, né sorprende che molti di essi gravitino proprio sulle nuove infrastrutture portuali e ferroviarie, quindi sul "fronte a terra", sull'orlo occidentale della città: nel 1883 apre ad esempio i battenti il Cotonificio Veneziano di S. Marta. Ma il vento della modernità industriale attraversa anche il canale della Giudecca e raggiunge l'isola più meridionale e "periferica" di Venezia, dove nel 1878 sorge la fabbrica di orologi Junghans e cinque anni più tardi - proprio di fronte alla neonata Stazione Marittima - il primo Molino Stucky.

Figlio di un imprenditore svizzero già proprietario di alcuni mulini in terraferma, Giovanni Stucky era nato a Venezia nel 1843. Nel 1880 acquista l'ex convento di S. Biagio alla Giudecca, da anni in decadenza, e lo demolisce per costruirci il suo "Molino a cilindri": inaugurato nel 1884, è un austero edificio a pianta rettangolare, di notevoli dimensioni ma ancora lontano dall'imponenza e dall'eccentricità stilistica dei successivi adattamenti. Richiamando lo stile architettonico degli edifici industriali che sorgono al di là del Canale della Giudecca (il coevo Cotonificio e i grandi silos della Marittima, di poco successivi), il mulino contribuisce comunque a far apparire l'imboccatura del canale come una sorta di accesso alla nuova Venezia industriale, quasi la porta di una "Manchester sulla laguna".

Nel 1887 il mulino occupa 187 operai e viene realizzato un primo ampliamento, a dimostrazione del successo dell'impresa. Ma è alla metà degli anni Novanta che Stucky decide di tentare il vero e proprio salto di qualità, osando ciò che nessun imprenditore aveva mai osato a Venezia. Affidando il progetto del nuovo stabilimento ad un architetto di Hannover, Ernst Wullekopf (1852-1927), Stucky dimostra di avere in mente una scelta stilistica ben precisa: vuole portare in laguna l'architettura neogotica già alla moda nell'Europa settentrionale, e in Germania in particolare; in quei paesi, cioè, che sono allora modello riconosciuto della civiltà industriale. Ma siamo pur sempre a Venezia, e l'ipotesi di un enorme edificio del tutto estraneo all'ambiente e alla tradizione locale - con merli, guglie, nicchie archiacute e grande torre d'angolo -- suscita scandalo e forti opposizioni. L'amministrazione comunale, decisamente contraria al progetto, concede l'autorizzazione solo dopo che Stucky ha minacciato di chiudere bottega licenziando tutti i dipendenti e dopo che un incendio ha semidistrutto la struttura esistente. Nel 1896 sorge così la grande fabbrica-castello neogotica pensata da Wullekopf che ingloba, nella facciata lungo il Canale della Giudecca, il precedente "molino a cilindri". L'aspetto è già quello che dominerà questo scorcio di Venezia per i decenni successivi, ma l'estensione non è ancora quella a noi nota: nonostante un nuovo, terribile incendio nel 1897 (per spegnerlo ci vorrà più di una settimana), il complesso dello Stucky continua ad ampliarsi con riadattamenti e nuove costruzioni fino agli anni Venti. Vengono aggiunti i silos, un nuovo mulino per i grani duri e soprattutto - nei primi anni del Novecento - il pastificio, con la cui apertura la manodopera impiegata nello stabilimento cresce ulteriormente.

Non saranno però i successi imprenditoriali, bensì un celebre caso di cronaca nera, a portare il Molino al centro delle cronache veneziane del 1910: Giovanni Stucky, il "principe dei mugnai", viene assassinato sui gradini della stazione ferroviaria da un suo ex operaio licenziato. La direzione dell'impresa passa quindi al figlio Giancarlo (1881-1941).

1954, l'ultima difesa del "castello"

Nella seconda metà degli anni Trenta il Molino Stucky, trasformato in società per azioni, arriva ad occupare 400 lavoratori. Ma con il successivo dopoguerra una serie di problemi investe l'azienda veneziana: la stessa ubicazione su un'isola, che l'aveva avvantaggiata quando il commercio di grani e farine avveniva soprattutto per mare, risulta un handicap ora che il trasporto su ruote si è fatto più conveniente; difficile diventa, a questo punto, sostenere la concorrenza dei mulini della terraferma. Si aggiungono a ciò errori di politica economica da parte della direzione aziendale, che gli operai accusano di manovre speculative a danno della produzione.

È evidente, tuttavia, che la crisi non si limita allo Stucky: in quegli stessi anni è l'intero apparato industriale della Venezia insulare ad apparire in rapido, drammatico e inarrestabile declino, mentre la terraferma e Porto Marghera si presentano sempre più come l'unica possibile collocazione per le attività produttive. Molte piccole e medie industrie veneziane hanno già chiuso o ridimensionato la loro attività, l'Arsenale e il Cotonificio stanno dimezzando i posti di lavoro, lo stesso porto mostra segni di difficoltà. I disoccupati sono, nell'intero comune, più di ventimila.

Così quando nel maggio 1954 il Consiglio di amministrazione dello Stucky - che nel 1952-53 ha già licenziato una ventina di operai - annuncia per il giugno successivo la definitiva chiusura dello stabilimento, pare la classica goccia che fa traboccare il vaso. I circa trecento dipendenti decidono all'unanimità l'occupazione a tempo indeterminato e si asserragliano nel "castello". Costituiscono quindi un Comitato di gestione per organizzare i diversi aspetti della vita nella fabbrica occupata: dalla difesa contro eventuali tentativi di sgombero da parte della Celere ai passatempi per gli occupanti (si costruisce ad esempio un campo da bocce, si pianificano tornei di carte ecc.).

Fuori, intanto, si mette in moto la solidarietà della città: nasce alla Giudecca un Comitato di difesa pro-Stucky cui partecipano tutte le forze politiche locali - comunisti, democristiani, socialisti - ma anche, tra gli altri, i frati del Redentore e le parrocchie dell'isola. Il Consiglio comunale e quello provinciale votano documenti di solidarietà e stanziano fondi a sostegno degli scioperanti. Gli operai escono dallo Stucky per inscenare cortei di protesta e per sfilare in Canal Grande, con le famiglie, sui grandi burchi adibiti al trasporto della farina (succede anche la notte del Redentore): un'immagine che resterà a lungo impressa nella memoria dei veneziani. È chiaro ormai che non è più solo una lotta in difesa del mulino ma, simbolicamente, l'ultimo tentativo di porre un argine al rovinoso processo di deindustrializzazione del centro storico veneziano.

Dopo 46 giorni di occupazione, il 5 agosto 1954 gli operai accettano un accordo con l'azienda: il lavoro viene garantito alla metà dei circa 300 dipendenti dello Stucky, per tutti gli altri c'è solo una consistente liquidazione. In pratica viene abbandonato il mulino vero e proprio mentre continua a funzionare il solo pastificio. Chiuderà anch'esso, in verità, appena due anni più tardi.

Cominciano così, per lo Stucky, i lunghi decenni dell'abbandono. Negli anni Sessanta si decide addirittura di abbatterlo per far posto ad un quartiere residenziale, e l'idea viene abbandonata solo in extremis. Gli anni Settanta e Ottanta, invece, sono la stagione degli innumerevoli progetti di recupero e riutilizzo: grande albergo e centro congressi sono le ipotesi più gettonate. Intanto però l'enorme complesso, vuoto e abbandonato, misterioso, pericolante e pericoloso, è diventato meta di fotografi ispirati oltre che di generazioni di giovani giudecchini in vena di emozionanti esplorazioni.

Finalmente, nel 1994, entra in gioco la società Acqua Marcia con il suo progetto di polo alberghiero-congressuale (residence, centro congressi e albergo di lusso); i cantieri si aprono nel 1998 ma vengono interrotti, proprio nella fase cruciale della ristrutturazione, dall'incendio del 15 aprile 2003. Le facce delle migliaia di veneziani accorsi quel giorno sulla riva delle Zattere chiariranno una volta per tutte quanto quello strano edificio, che tanto aveva scandalizzato i loro trisavoli, sia ormai un elemento caratteristico ed insostituibile del panorama cittadino.




(4 agosto 2011)

 
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